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Oratio De Hominis Dignitate
(20/02/2014)

uomo

 

§ 1. Preambolo

Ho letto, molto venerabili Padri, nelle fonti degli Arabi che Abdalla Saraceno  interrogato su che cosa, in questa sorta di scena del mondo, scorgesse di sommamente mirabile, rispose che non scorgeva nulla di più mirabile dell'uomo. Con questo detto concorda quello di Mercurio: «Grande miracolo, o Asclepio, è l'uomo»

§ 2.  

Insufficienza delle motivazioni correnti circa la superiorità umana

A me, che pensavo al senso di queste affermazioni, non erano sufficienti le molte cose che da molti sono addotte circa l'eccellenza della natura umana: che l'uomo è principio di comunicazione tra le creature, familiare alle superiori, sovrano sulle inferiori; per la perspicacia dei sensi, per l'indagine razionale e per il lume dell'intelligenza interprete della natura; interstizio tra la fissità dell'eterno e il flusso del tempo e (come dicono i persiani) copula, anzi imeneo del mondo, rispetto agli angeli (ne dà testimonianza Davide) solo un poco inferiore.

§ 3.  

La scoperta finale

Cose grandi queste, ma non le principali, tali cioè da consentirgli di rivendicare a buon diritto il privilegio della somma ammirazione. Perché infatti non ammirare di più gli stessi angeli e i beatissimo cori del cielo? Alla fine è sembrato di aver capito perché l'uomo sia tra gli esseri viventi il più felice e quindi il più degno di ammirazione, e quale sia al fine, nella concatenazione del tutto, la condizione che egli ha avuto in sorte, che non solo i bruti, ma anche gli astri, ma anche le intelligenze ultraterrene gli invidiano. Cosa incredibile e mirabile! E come altrimenti? Giacché è a causa di quella propriamente l'uomo è detto e stimato un grande miracolo e un meraviglioso essere animato. Ma quale sia udite, Padri e con orecchio benigno, conforme alla vostra umanità, siate indulgenti verso questa mia opera.

§ 4.  

Il racconto della creazione

Già il sommo Padre, Dio architetto aveva foggiato questa dimora del mondo, che noi vediamo, il tempio augustissimo della divinità, secondo le leggi della sapienza arcana. Aveva ornato con le intelligenze la regione iperurania; aveva animato i globi eterei dianime eterne; aveva riempito le parti escrementizie e sozze del mondo inferiore con turba di animali di ogni specie. Ma, compiuta l'opera, l'artefice desiderava che vi fosse qualcuno che sapesse apprezzare il significato di tanto lavoro, che ne sapesse amare la bellezza, ammirarne la grandezza. Perciò, terminata ogni cosa, come attestano Mosè e Timeo, pensò alla fine di produrre l'uomo. Ma tra gli archetipi non c'era di che da formare la nuova progenie, non c'era nei tesori qualcosa a elargire in eredità al figlio, non c'era tra i seggi di tutto il mondo dove potesse sedere il contemplatore dell'universo. Tutto era ormai pieno; tutto era stato distribuito tra gli ordini, sommi, medi, infimi. Ma sarebbe stato tuttavia indegno della potestà paterna venir meno in quest'ultimo parto, quasi fosse incapace di generare; indegno della sapienza,ondeggiare per mancanza di consiglio in un'opera necessaria; indegno dell'amore benefico che colui che avrebbe lodato negli altri la divina liberalità fosse indotto a condannarla a suo riguardo.

§ 5.  

Il discorso di Dio all'uomo

Stabilì infine l'attimo artefice che a colui cui non si poteva dare nulla di proprio fosse comune quanto apparteneva ai singoli.
Prese perciò l'uomo, opera dall'immagine non definita, e postolo nel mezzo del mondo così gli parlò: «Non ti abbiamo dato, o Adamo, una dimora certa, né un sembiante proprio, né una prerogativa peculiare affinché avessi e possedessi come desideri e come senti la dimora, il sembiante, le prerogative che tu da te stesso avrai scelto. La natura agli altri esseri, una volta definita, è costretta entro le leggi da noi dettate. Nel tuo caso sarai tu, non costretto da alcuna limitazione, secondo il tuo arbitrio, nella cui mano ti ho posto, a decidere su di essa. Ti ho posto in mezzo al mondo, perché di qui potessi più facilmente guardare attorno a quanto è nel mondo. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché come libero, straordinario plasmatore e scultore di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che avrai preferito. Potrai degenerare negli esseri inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti, secondo la tua decisione, negli esseri superiori, che sono divini».

§ 6.

O somma liberalità di Dio Padre, somma e mirabile felicità dell'uomo! Al quale è dato avere ciò che desidera, essere ciò che vuole. I bruti nascendo recano seco (come dice Lucilio) dall'utero della madre tutto ciò che possederanno. Gli spiriti superni o sin dall'inizio o poco dopo diventarono quello che saranno nelle perpetue eternità. Nell'uomo nascente il Padre infuse semi di ogni tipo e germi d'ogni specie di vita. I quali cresceranno in colui che li avrà coltivati e in lui daranno i loro frutti. Se saranno vegetali, diventerà pianta; se sensibili [sensitivo?] abbrutirà. Se razionali, riuscirà animale celeste. Se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio.  E se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fattosi uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre, colui che è collocato sopra tutte le cose su tutte primeggerà.

§ 7.

Chi non ammirerà questo nostro camaleonte? O piuttosto chi ammirerà qualsivoglia altro [essere] di più? Non a torto, Asclepio Ateniese disse di lui che, per la sua natura cangiante e metamorfica, nei misteri si manifestava attraverso [era simboleggiato da] Proteo. Di qui quelle metamorfosi celebrate presso gli Ebrei e i Pitagorici.

§ 8.

Infatti anche la più segreta teologia degli Ebrei ora trasforma Enoch santo nell'angelo della divinità, che chiamano <Metatron>, ora in altri spiriti numinosi. E i Pitagorici deformano gli uomini scellerati in bruti e, se si crede ad Empedocle, anche in piante. Imitando costoro Maometto ripeteva spesso e a ragione che chi si è allontanato dalla legge divina riesce un bruto. Infatti non è la corteccia che fa la pianta, ma la natura stordita e non senziente; non il cuoio che fa la giumenta ma l'anima bruta e sensuale; non il corpo circolare che fa ilcielo, ma la retta ragione; non la separazione dal corpo che fa l'angelo, ma l'intelligenza spirituale. Se vedrai qualcuno dedito al ventre strisciare per terra, non è uomo quello che vedi ma pianta; se [vedrai] qualcuno come da Calipso accecato con vani miraggi della fantasia e, succube di seducente incantesimo, fatto servo dei sensi è bruto quelloche vedi, non uomo.
Se [vedrai] un filosofo discernente ogni cosa con retta ragione, veneralo; è animale celeste, non terreno. Se [vedrai] un puro contemplante, ignaro del corpo, relegato nei penetrali della mente, questi non è animale terreno, non celeste: questi è uno spirito più augusto,rivestito di carne umana.

§ 9.

Chi dunque non ammirerà l'uomo? Il quale non immeritatamente nelle sacre scritture Mosaiche e Cristiane viene designato ora con il nome di ogni [essere di] carne, ora con quello di ogni creatura, dal momento che egli stesso foggia, plasma e trasforma il proprio aspetto in quello di ogni [essere di] carne, il proprio ingegno in quello di ogni creatura.
Per questo motivo il Persiano Evante, ove spiega la teologia Caldaica, scrive che non è dell'uomo alcuna sua immagine innata, ma molte esteriori e avventizie. Di qui quel detto dei Caldei che l'uomo è animale di natura varia multiforme e incostante.

§ 10.

Ma a che fine tutto questo?
Affinchè comprendiamo, dal momento che siamo nati nella condizione di essere ciò che vogliamo, di doverci curare di questo principalmente, che non si dica di noi che essendo in onore, non ci siamo accorti di esserci fatti simili a bruti e a stolti giumenti. Ma piuttosto [rammentiamo] quel detto del profeta Asaph: «Siete [tutti] dei e figli dell'eccelso», affinchè, abusando della indulgentissima liberalità del Padre, non ci rendiamo da salutare nociva la libera scelta che egli ci diede. Ci invada l'animo una sacra ambizione così che non contenti delle cose mediocri aneliamo alle somme, e ci sforziamo di conseguirle con tutte le forze (poiché possiamo se lo vogliamo). Disdegniamo le cose terrene, non teniam conto di quelle celesti e, trascurando una buona volta tutto ciò che è del mondo, voliamo alla curia oltremondana prossima all'eminentissima divinità. Ivi, come tramandano i sacri misteri, Serafini, Cherubini e Troni occupano i primi posti; e di quelli anche noi, riluttanti a cedere e insofferenti dei secondi [posti], emuliamo la dignità e la gloria. A loro saremo, volendo, in nulla inferiori.

[...]

 

Pico della Mirandola

 

 
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