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Il culto dei morti
(20/09/2008)

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Molti sostengono che il culto dei morti dia la misura del livello  di civiltà raggiunto da un popolo.

Sembra infatti accettato che la spiritualità dell'uomo sia una funzione diretta di ciò che deriva dall'essersi posti il problema di quello che ci attende dopo la morte: le soluzioni date rappresenterebbero la profondità della spiritualità cui si è pervenuti.

Prospettare un post mortem poco significativo e semplicistico sembrerebbe di popoli poco evoluti: vivere un'intera vita per finire in quattro e quattr'otto in una semplice pianura metafisica cosparsa seppure di alberi di miele e popolata da uri è riduttivo delle attese di chi pena magari una vita quotidiano in completa sottomissione, pervasa di avvilimenti e priva di ogni speranza di redenzione del proprio stato.

Culto dei morti presso gli Egizi: Anubi prepara le spoglie del Faraone

Peraltro, alcune popolazioni si sono inventate storie più complicate: gli Egizi si attendevano di essere sottoposti al giudizio di Maat appena dopo morti: a seconda che l'anima pesasse più o meno d'una leggera piuma si era dannati irrevocabilmente (non era previsto ancora il luogo in cui si potesse espurgare d'ogni residuo colpa o demerito in atteso del giudizio finale circa l'immortalità dell'animo) o si passavo – è il caso di dirlo - a miglior vita.

Il culto dei morti dei semiti è accettato come tradizionale; viene preferita l'inumazione forse perché il marciume putrefatto prodotto dai cadaveri può avvantaggiare la terra di nitrati, fosfati e potassi vari che concimano a dovere regioni per lo più semi-desertiche, permettendo la crescita di quella vegetazione che, se conformata in alberi di alto fusto, potrà servire non solo per costruire imbarcazioni per approvvigionarsi di pescato, ma anche per creare vaste zone d'ombra dove il carattere indolente di quelle popolazioni troverà requie nelle assolate contrade del vicino oriente.

Sembra che alcune frange di semiti, che si crede non abbiano potuto godere a sufficienza delle ombre di cui ormai conosciamo l'origine, prediligono disfarsi della propria corporeità cannonate, tanto che non rimangono che dei brandelli cosi poco consistenti che non valga la pena né sotterrarli (poiché non produrrebbero che prezzemolo), ne imbalsamarli ne arrostirli, poiché la cerimonia - per quel poco - sarebbe misera e non accontenterebbe nessuno.

Necropoli etrusca

Alcuni di essi - che privati delle ombre degli alberi sono stati colpiti fortemente dai raggi solari nelle regioni cerebrali - hanno risolto di polverizzarsi addirittura con dei giubbini esplosivi, onde manlevare del problema del culto post mortem delle loro spoglie i parenti più prossimi.

Essi sono talmente generosi e previdenti che offrono la loro soluzione fin da giovanissimi, mostrando ai loro ancora non anziani genitori ed agli amici di non voler far vermi una volta morti, magari divenuti vecchi e prede d'ogni insolenza.

Chi sembra aver capito tutto, però rimanendo in un oriente un pò meno vicino e che definiremo medio, sono gli adoratori del fuoco, seguaci del grande e ormai quasi dimenticato Zarathustra, i quali fin da mille anni prima di questa era assai volgare, in concomitanza con le fantasiose epopee mosaiche, avevano rilevato che chi muore puzza, tanto per cominciare.

Ragion per cui, onde evitare i miasmi e la putredine dei genitori, dei figli, dei parenti e degli amici morti, ributtanti peggio che gli escrementi, ne deponevano le povere spoglie nelle cosiddette Torri del Silenzio, lontano, fuori di città, ove solo i corvi e il Sole poteva finire.

Sarebbe forse rimasto solo il ricordo. Questa soluzione, certo migliore e in fondo meno drammatica di quello pensata dagli ebrei e dagli adoratori dei cadaveri in generale, denuncia un pensiero superiore agli stessi indiani - che è quanto dire - i quali sovrappongono al fuoco di costose pire i resti dei loro cari.

Pira funeraria per cremazione

In ciò gli iranici mostrarono d'avere ingegno per la metafisica: nemmeno il Fuoco - elemento sacro cui si riferisce l'opera di Oromaze - poteva contaminarsi con cadaveri o carogne putrefatte, nutrimento - casomai- del principio che gli si contrappone, Agramaino.

La Terra nutrice d'uomini, tocca ad essi - secondo un pensiero polimorfo che si esprime qua e là attraverso i culti dei trapassati- restituirle il favore con i propri orridi liquami tramite i quali nasceranno, come s'è detto, gradevoli alberate ma non solo, poiché le più belle rose richiedono immondi grumi e battaglioni di larve putrefatte.

Un pensiero moderno, formatosi sui successi della Ragione, ha ideato, per far spazio a tutti, democraticamente, poiché si è sempre di più e non si sa dove prendere posto da morti, l'impilamento delle salme tramite cosiddetti loculi sovrapposti fino a sette piani, per arrivare ai più alti dei quali si adoperano scale che da alcuni sono dette di Giacobbe perché ascendendo le quali ci si metterebbe in qualche modo se non in contatto con lo stessa divinità, almeno con chi - passato dall'atra parte - magari se fortunato La vedrebbe.

Ma queste sono tutte fantasticherie. Di reale ci sono ormai questa sorta di colombai cementizi dai quali essudano i liquami mortali, per cui può accadere che quelli del cadavere del V piano scolino su quelli del IV e insieme si mischino a quelli del III, derivando una sorta di brodino orrendo davvero contenente i geni, il DNA e quant'altro di alcuni che in vita non si sarebbero potuto immaginare che un giorno si sarebbero conosciuto in siffatto modo.

Ma siccome siamo nel pieno secolo della comunicazione, alcuni settori dell'opinione corrente ritengono di poter sostenere che anche quello sia un modo moderno di comunicare e che, giudicando che dopo questa Vita ci sarà pure molto da fare sia per i redenti che per i dannati, il combinare misture lipoidi e vomitevoli in questo mondo potrebbe alludere a ciò che avvengo nell'altro, pur nell'annunciazione grossolana di inconcepibili volontà espresse nel mondo ultraterreno e forse spirituale.

Incisione di una torre del Silenzio zoroastriana

La serietà dell'argomento pone un limite di leggerezza con la quale ci si è confrontati in questa breve indagine: anche se l'uomo contemporaneo appare superficiale, manifestando di vivere senza soverchio rispetto per il destino che tutti ci attende nell'immediato, dopo aver esalato l'ultimo fiato, pure vissuto come un incubo il dover morire, concepito in fondo come la spaventevole fine dello nostra individualità, accresciuta in vita con tutti i visi di cui ci ha arricchiti la modernità, che sembra aver proceduto con il moltiplicatore dei nostri più ordinari e volgari istinti, che hanno servito da nutrimento plurivitaminico per far crescere bene il nostro irrinunciabile e tanto caro io.

In luogo di vivere per vieppiù ridurlo e per infine lodevolmente separarsene, come d'un abito vecchio, sporco e ormai consunto - dunque inutile - ci si è formata l'idea che vale più la pena di pensare ad un culto dei vivi piuttosto che dei morti, per cui si è scatenata la corsa alla sfrenatezza dei costumi, all'accaparramento, al godimento effimero, all'occhiuta rapina dell'altro, alla sopraffazione ed all'esaltazione del proprio interesse individuale su quello dello collettività, ai viaggi nell'inutile ogni dove possibile.

Altro che culto degli antenati e delle loro memorie. Sicchè è avvenuta lo conversione, da parte dell'uomo stesso, del suo destino, che sarebbe quello di andare dal basso in Alto: divenuto idolo di se stesso e di ciò che produce, all'uomo non resta che scendere la scala di Giacobbe per comunicare con lo divinità, e cioè con se stesso; per cui ciò che era Cielo divenuto Terra, resa ferace appunto dai culti ormai resi al putridume sparso nell'ovunque da chi inneggia da ebbro olla Vita senza accorgersi d'essere morto da un pezzo.

 

FRANCESCO MAURIZIO PULLARA

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