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Le Avventure di Alfredino detto Menelik -6-
(20/08/2011)

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Capitolo Undicesimo

Il risorgere della gallina

La scuola era molto vicina alla mia casa cui era collegata tramite un sentiero alberato.

L’edificio consisteva in due aule, un cortiletto coperto, l’abitazione per la maestra, un campetto dove gli scolari giocavano, il tutto circondato da alberi grandi e piccoli.

C’era un’unica insegnante per i primi tre gradi e si spostava in continuazione da un’aula all’altra, per poter assistere bambini e bambine.

Presto al mattino con sole e pioggia gli scolari arrivavano alla spicciolata dalle case e dalle fattorie dei dintorni.

Tutti con il grembiulino bianco e un grande fiocco blu al collo con pois bianchi.

Montavano cavalli mansueti, anche in due, e al passo o al trotto lento, percorrevano diverse leghe per assistere alle lezioni scolastiche.

Prima di entrare la maestra serviva ad ogni scolaro un tazza fumante di mate cotto con il latte, una mezza galletta, e tutti facevano colazione.

C’era poi l’alza bandiera e tutti in fila si cantava un inno patrio e alla fine, con un rintocco di campana, si entrava in aula. Il tutto in assoluto silenzio.

In quei tempi le penitenze, o meglio punizioni, per gli indisciplinati erano varie; le tirate d’orecchie erano all’ordine del giorno, una bacchettata sulle mani, uno schiaffone, in piedi all’angolo guardando il muro.

Però il più crudele era quello di inginocchiarsi su un mucchio di grani di mais o di ceci che prima o poi ti penetravano nella pelle e il segno rimaneva per alcuni giorni.

Poi rientrando in casa guai a dirlo ai genitori per lamentarsi.

Loro erano sempre dalla parte della maestra e se fiatavi te le suonavano di santa ragione.

Anche io provai quella “tortura”, quello che non ricordo fu il motivo, però il dolore si, perché i fatti che provocano forti emozioni non si dimenticano mai.

Torniamo alla gallina…

Successe che cambiarono l’insegnante, era giovane e senza esperienze, e siccome doveva vivere da sola, una delle mie sorelle, la più giovane, dopo le ore scolastiche, rimaneva per farle compagnia, darle una mano per cucinare e per le altre faccende domestiche.

Quel giorno qualche allievo zelante le portò come dono un paio di galline vive.

Allora la maestrina rivolgendosi a mia sorella domandò:
_ Carmen, sai ammazzare una gallina…? _
_ Si, si, sicuramente, è una cosa da nulla _
_ Prendi questa, me l’hanno regalata, uccidila e preparala _

Allora mia sorella, che doveva avere più o meno dieci o undici anni, prende la gallina per le zampe, va nel cortile, si sente un grande sbattere di ali e gli strilli disperati del pennuto, e poi… silenzio!

E rientrando dice soddisfatta:
_ Ecco fatto!, adesso è bella che morta! _

_ Brava, brava _ disse la maestrina tutta contenta, _ Ma adesso dovrai spennarla _

_ E che ci vuole _ rispose Carmen… mise a bollire un pentolone d’acqua .

La gallina ormai non dava alcun segno di vita e quando l’acqua era sufficientemente calda prese il pennuto per il collo immergendola nella pentola fumante.

Poi canticchiando iniziò a spennarla, fino a quando rimase completamente nuda.

Poi prese un coltellaccio e, quando stava per abbassare la lama per il colpo mortale, la gallina spiccò un salto e scappò via completamente pelata.

Ecco dove si trova l’arte, nell’assurdità di tutta la faccenda e dallo spettacolo che venne fuori; mia sorella con il coltello in mano, la maestrina, io e alcune persone che si trovavano nei dintorni, correre dietro a quella povera gallina nuda senza le sue piume che ormai era destinata al sacrificio.

Io, sinceramente, l’avrei risparmiata, mi faceva tenerezza vederla con quella voglia di vita, però non era mia e poi era spennata.

Comunque mi rifiutai di assaggiare un pezzo che mi era stato offerto. Mi ero intenerito.

 

L’aquilone che non volò mai

Il capo della stazione della ferrovia era un amico di famiglia, si chiamava Lazzaro e passava lungo tempo con mio padre e mio fratello, parlando di svariati temi di interesse generale.

Vestiva con un giacchettone di pelle marrone scuro, e portava sempre in testa il cappello da capo stazione con la scritta “Jefe” e molte volte era invitato a pranzo o a cena e restava a chiacchierare fino a notte inoltrata.

Era compito di mio fratello maggiore aiutare mio padre nella direzione dell’ufficio postale, così si recava un giorno si ed uno no alla stazione per inviare il sacco piombato con la posta in uscita e contemporaneamente ricevere un altro sacco con la posta in arrivo, e non solo, il negozio fungeva anche da edicola, così con la posta prendeva i giornali e le riviste.

Siccome la stazione ferroviaria non era lontana da casa mio fratello vi si recava in bici, anche perché doveva portare dei pesi, e quasi sempre mi portava con sé seduto davanti per fargli compagnia.

Il treno dei passeggeri aveva vagoni di legno in prima e seconda classe, più un vagone per le merci; che erano uova, latte e delle gabbie con polli, galline, oche e altro; il vagone postale con un dipendente e infine una carrozza più piccola per il controllore.

La locomotiva arrivava sbuffando in una nuvola di fumo e di vapore.

Ragazzi, che spettacolo! Si fermava cigolando e fermandosi lanciava una grande scarica di vapore e due forti fischi.

Dentro c’erano un macchinista e un fuochista, con le facce e gli indumenti sporchi di carbone.

Il fuochista scendeva con una grossa oliera e uno straccio ed oliava certi meccanismi della vaporiera.

Per me che ero piccolo di età e di statura quella “cosa” nera, grande, che nel cuore bruciava un potente fuoco, non era altro che un mostro che mi incuteva un reverenziale timore, fino a quando, tramite il signor Lazzaro, fui issato sopra e mi fecero toccare con mano, suonai addirittura, tirando una catenella, un potente fischio e il mio cuore amò quel grosso cavallo di ferro, come lo chiamavano gli Indios delle Pampas e ogni volta mi godevo la sua vicinanza.

Lì, nella stazione, quando tutta l’operazione di scarico e carico era conclusa, il capo stazione dava un segnale al controllore che guardava il suo orologio tascabile  e con un fischietto tra le labbra lanciava il segnale mentre con la mano agitava un fazzoletto verde.

Allora la locomotiva lasciava due o tre “Pi….” prolungati, e le potenti ruote immerse in un frastuono di ferraglia scivolavano nei binari prima di riprendere a muoversi trainando tutto il convoglio, che in pochi minuti era un puntino all’orizzonte con un filo di fumo, che lasciava un odore caratteristico di legna e carbone bruciato.

Poi c’erano treni da carico che quelle vaporiere trainavano come se niente fosse.

Contai fino a sessanta carrozze cariche di merce di ogni tipo.

Pensate per un momento al costo in denaro che si risparmierebbe se si tornasse ad usare le ferrovie per il trasporto di merci per tutto il territorio, e se tutte le nazioni lo prendessero come esempio tutti ne guadagnerebbero.

Pensate! Sessanta carrozze equivalenti a sessanta tir, guidati da tre persone soltanto con un immenso risparmio di combustibile, di persone, di strade rovinate, inquinate, e soprattutto zero incidenti!

E' proprio da persone senza cervello aver cambiato “Gli occhi con la coda”, come mio padre soleva dire.

Quasi dimenticavo l’aquilone…

_ Senti Menelik, vuoi che ti faccia un aquilone? _ mi domandò una sera dopo cena il signor Lazzaro.

_ Magari… _ risposi _ perché sarebbe il primo della mia vita _

E con spago, carta di giornale, canna, e colla fatta con acqua e farina, in un batter d’occhio ebbi il mio primo aquilone, che era più alto di me, e infine lo colorò con il sugo di rape rosse.

_ Ti piace figliolo? _ mi domandò.

_ Altro che!  _ risposi tutto felice.

_ Bene, bene, adesso lo lasciamo qui fuori sul tavolo ad asciugare per bene, così la carta asciugando si stira e domani verrò apposta per farlo volare _

Andai a dormire e subito mi trovai in un prato verdeggiante con un lungo spago in mano e all’altro capo il mio aquilone, alto, in un cielo blu cobalto e io correvo felice fra il verde, e anche Macchia ne godeva, strisciandosi sull’erba fresca e profumata.

Quando repentinamente un forte colpo di vento strappò lo spago e l’aquilone cadde dentro un porcile e quando raggiunsi luogo, gli animali lo avevano mangiato.

Piansi disperato e furono le mie lacrime a svegliarmi.

Mi vestii in fretta e corsi fuori dove avevo lasciato l’aquilone ad asciugare.

Sorpresa !Il mio primo aquilone era stato divorato dai topolini, che, attirati dalla colla di farina, banchettarono lasciando soltanto lo scheletro fatto di canna.

Allora si che piansi veramente, però quella sera mi sarei vendicato di quei miserabili roditori.

Caricai una decina di trappole con del buon formaggio e le lasciai lì tutta la sera.

Al mattino seguenti i gatti dei dintorni fecero un bel festino di cacciagione fresca.

 

Capitolo Tredicesimo

I rospi e le altre bestie

Quando mi affaccio nei miei primi anni di vita, alcuni ricordi affiorano con più forza e nell’ordine in cui appaiono, così li scrivo.

Considero ogni esperienza vissuta come una preziosa perla per ricondurre quella collana di fatti che mi condussero verso la maturità.

Oggi, dopo tanti anni, i miei capelli più simili al colore del sale che del pepe, ritengo di grande importanza una vita vissuta in un contesto sano e naturale come quello che la fortuna volle mi capitasse.

Ricordo che ero molto piccino e la mia mamma mi lasciò seduto nel mezzo del patio circondato da alcuni oggetti: coperchi di pentole, un mortaio dove si pestava il sale grosso, qualche barattolo vuoto che percuotevo con il pestello del mortaio, quando richiamò la mia attenzione un rospone, che, forse incuriosito da tanto baccano, mi raggiunse saltellando.

Vedendo quel “coso” che si muoveva, nella mia innocenza, gli assestai un colpo con il pestello, e lui poveraccio, mezzo tramortito, reagì schizzandomi la sua pipì negli occhi.

Il bruciore fu terribile e piansi disperato e gridai così forte, che mia mamma, non molto lontano, capì cos’era successo, mi prese e senza perdere tempo mi lavò gli occhi con acqua fresca e… il poi sinceramente non lo ricordo.

Col passare degli anni, uno dei compiti che mi toccava svolgere nelle notti d’estate quando si cenava fuori, era di tenere a bada le centinaia di rospi che erano attirati dalla luce e degli insetti di cui si nutrivano.

Allora con una scopa e a calci li allontanavamo, ed erano tanti, così per non calpestarli, che sarebbe stato molto peggio, ci divertivamo un mondo improvvisandoci giocatori di calcio. Povere bestioline…

Non potevano mancare alcuni tipi di serpe e anche qualche serpente, e non era del tutto raro trovare uno di questi, nella legnaia, nel pollaio o addirittura in camera da letto come accadde in un’occasione, mentre mia sorella faceva la siesta con me in un lettino e mio padre nel letto grande non molto lontano.

Meno male che noi non dormivamo, stavamo giocando e ridendo in sordina per non svegliare il papà, nella penombra di un pomeriggio d’estate, quando fra il nostro letto e quello di papà vedemmo un serpente, forse incuriosito, affacciarsi, gonfiare il collo come un cobra e puntarci soffiando nella nostra direzione ad una manciata di centimetri.

Non ricordo se qualcuno di noi gridò, ma nostro padre si svegliò, capì all’istante la situazione e ci disse:

_ Non vi muovete _

Si alzò, prese la sbarra di ferro della porta e, dal suo letto, assestò al serpente un colpo mortale che gli fece schizzare la testa contro il muro.

Fortunatamente quel giorno c’era il nostro papà, altrimenti credo che non sarei qui a raccontare questa storia.

Generalmente questi rettili mangiano topi, topolini, uccellini e altri piccoli animaletti.

Per esempio ranocchie e rospi, li inghiottono interi; però attenzione, perché se il rospo, che è un animale inoffensivo, scopre un serpente che dorme arrotolato su sé stesso, gli procura una micidiale fregatura e lo ammazza!

In che modo domanderesti? Incredibilmente il rospo crea attorno al serpente un cerchio di schiuma bianca e aspetta. Quando si sveglierà, non so perché, il serpente non uscirà più da quel cerchio “magico”, e dopo alcuni giorni morirà irrimediabilmente.

Un altro fatto curioso è l’uso di un rospo per guarire il mal di denti da parte di un curandero, che sarebbe lo sciamano locale. Come fa questo signore?

È molto semplice, prende un rospo maschio e lo applica sulla guancia del paziente sofferente per qualche minuto, recitando delle parole incomprensibili.

Poi appende l’animaletto per una zampa al filo spinato, il quale morirà di lì a poco.

Poi accade l’incredibile: contemporaneamente al rospo muore il nervo del dente e questo non farà più male. Ci crediate o no, sembra che la cosa funzioni realmente.

Mi risulta che siano questi “uomini medicina”, che addirittura per guarire tumori, trasferiscono, aiutati dalla loro coscienza, la grave malattia ad un grande topo che ipso facto rimane stecchito lasciando il paziente completamente guarito.

Un’altra volta e …

Non ricordo quale fosse il motivo, ma il fatto è che il curandero diede a mio padre una ricetta per i suoi malanni; gli disse di farsi un’infusione con la “camicia del serpente”, ossia la pelle che cambia ogni anno per ringiovanire.

Se ben ricordo credo che la cosa funzionò benissimo.

Comunque, ritornando ai rospi, in certi periodi caldi dell’anno, era molto importante chiudere le camere da letto, perché, al minimo disguido, ti trovavi una famiglia di questi animaletti sotto qualche armadio. Pure se questi cacciavano mosche e zanzare, spiccando salti o sparando soltanto la lingua.

Poi c’era un altro tipo di rospone, più grande e dai colori vivaci, che dicevano fosse velenoso e, quando ne veniva individuato uno, si lanciava l’allarme e i grandi accorrevano e generalmente lo uccidevano per precauzione.

Era molto comune vedere dei ragni grossi e piccoli un po’ dappertutto, ma queste bestiole generalmente erano innocue ad eccezione di quelle grosse che, se davano fastidio, venivano generalmente eliminate, soprattutto se entravano in casa.

Poi fuori c’erano tante specie diverse, che convivevano più o meno in pace, però la cosa più importante era imparare a conoscerle nel proprio ambiente, perché uomo o bestia che siano sicuramente avevano qualcosa da trasmettere o insegnare.

Le cavallette

_ Arrivano le cavallette, arrivano le cavallette! _

Questo era il grido d’allarme di noi bambini, quando in cielo vedevamo una nuvola nera che oscurava il sole e si avvicinava pericolosamente.

_ Chiudete porte e finestre, prendete i vasi dei fiori, le piante nelle fioriere, portatele dentro, presto, presto _  Così gridava la mamma prima che arrivasse una delle peggiori piaghe che affliggevano certe zone della terra.

Allora chiudevamo tutto e si accendevano fuochi attorno con molto fumo, però quegli animaletti arrivavano ugualmente e si posavano su tutto, sugli alberi, nell’orto, sui muri, per terra a mo di tappeto, e quando camminavano scricchiolavano perché non c’era altra alternativa che calpestarle.

Loro mangiavano tutto quello che era vegetale: alberi, ossia le foglie, erbe, piante e pianticelle, così come in campagna tutte le coltivazioni dei poveri contadini che lottavano con tutti i mezzi.

Questi insetti si riproducono facilmente depositando per terra in un buchetto, dove infilano le code, centinaia di uova che in duo o tre giorni si schiudono e i piccoli escono e cominciano subito a mangiare.

Allora i contadini piantavano per terra delle lamiere di settanta centimetri d’altezza, per decine e decine di metri, a mo di barriera, perché quando sono piccole non volano ancora e i salti non superano quelle barriere di latta, rimanendovi ammucchiate contro, allora i contadini, con una specie di lanciafiamme, le bruciavano tutte ed il puzzo di quelle locuste arrostite impregnava l’aria per giorni e giorni e, sinceramente, era un po’ schifoso.

Oggi, ricordando quegli episodi, comprendo perché quegli insetti sono mitologici, semplicemente perché sono una vera e propria piaga per chi li subisce.

Adesso invece vi racconterò una storia, in cui mio padre e a volte mio fratello venivano chiamati dai bambini di un collegio di preti, le cavallette!

A qualche lega da casa c’era un collegio di preti dove si insegnavano materie agricole ai ragazzi.

Vi studiavano i figli dei contadini di tutta quella zona della campagna che dovevano superare il centinaio, più i preti e qualche insegnante laico.

Ogni due o tre mesi mio padre e mio fratello, sempre accompagnati da me, andavano in quella zona dove si improvvisava una pelucheria dove rasare a zero le teste degli studenti, dei preti e di tutti quelli che lavoravano lì.

Infine ai preti gli facevano la tonsura che consisteva in un cerchio perfetto proprio nel centro della testa, che era un segno che li distingueva dagli altri.

Il mio aiuto consisteva nel raccogliere i capelli tagliati, che alla fine erano una montagna, così, con la scopa e una paletta, riempivo diversi contenitori.

Si partiva al mattino prestissimo da casa in sulky, e quando arrivavamo al collegio, con il povero cavallo mezzo morto dalla stanchezza, i primi bambini che ci vedevano gridavano:
_ Arrivano le cavallette _ e si passavano la voce fra loro, perché di lì a poco le loro teste sarebbero state pelate come una rapa.

Quella “strage” durava tre giorni e mio padre e mio fratello finivano la giornata con dei crampi alla mano, perché le macchinette erano manuali.

Per l’economia della nostra famiglia, quel lavoro era di grande importanza, anche perché i preti avevano uno spaccio di prodotti che producevano a prezzi abbastanza ragionevoli, così ad ogni viaggio ritornavamo a casa stracarichi di ogni ben di Dio come: formaggi, dolce di latte, miele, salumi, marmellate ed altro.

E siccome avevano una quantità enorme di alberi da frutto, mio padre chiedeva il permesso di raccoglierne alcuni come: arance, limoni, mandarini, mele, pesche, ecc…

Allora il direttore gli indicava la zona dove andare e da quali alberi prendere, però mio padre gli diceva di mangiarseli lui quelli e sceglieva così i migliori e con il mio aiuto riempivamo due o tre sacchi fino all’orlo e poi, contenti e soddisfatti, rientravamo a casa.

Invece mio fratello faceva esattamente quello che il prete gli indicava e la differenza saltava agli occhi.

Mio padre diceva sempre:
_ Loro sono in debito con me, perché gli ho dato un figlio _

Infatti questa storia non gli andò mai giù, perché il secondo maschio si fece prete e non ci fu niente da fare per dissuaderlo.

Ebbi la fortuna, in uno di quei viaggi, di vedere una cometa con una immensa coda.

Fu grazie al fatto che si partiva prima dell’alba, anche perché in quelle ore si viaggiava più freschi e il nostro cavallo si stancava meno.

-Continua nel prossimo numero-



di Alfredo Cellini Lupetto

 

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